Читаем Shadrach nella fornace полностью

Shadrach trova un rifugio momentaneo nella carpenteria. Fino a oggi questo culto alla moda non è stato per lui altro che un divertimento, una fonte di relax e di distrazione, più che un ideale quasi mistico come è per molti degli adepti; ma ora, stravolto e disperato, ben diverso dall’uomo posato e distaccato che era un tempo, Shadrach si abbandona al culto in tutta la sua intensità. Il mondo gli si è fatto più stretto. Per un osservatore esterno, tutto procede come sempre, e non cambierà; la routine continuerà, la sua attività di medico, i suoi esercizi callistenici, il collezionismo e i viaggi a Karakorum; ma nel corso degli ultimi due giorni, consapevole della terribile sottrazione della personalità che Gengis Mao ha in serbo per lui, Shadrach scopre che i ritmi familiari e confortevoli della vita non bastano più a farlo andare avanti. La paura e il dolore hanno cominciato a insinuarglisi nell’animo, e il solo antidoto che conosce è la sottomissione a una qualche forza che sia più grande di lui, ancora più grande di Gengis Mao, qualcosa di onnipotente. Se ci riuscirà, farà della carpenteria lo strumento di questa sottomissione. Col martello e i chiodi, dunque, con lo scalpello e l’ascia, con la pialla e la sega e il punteruolo, cerca, se non la salvezza, almeno una liberazione temporanea dall’angoscia.

Normalmente, Shadrach frequenta la cappella carpentiera di Karakorum, grande e maestosa. Ma c’è sempre un’atmosfera da carnevale a Karakorum, e questo tende a banalizzare qualunque cosa lui vi faccia, che sia carpenteria o sogno di morte, transtemporalismo, semplice fornicazione. Ora, in preda a un bisogno spirituale autentico, non sente il bisogno della cappella più elegante, ma di quella più prontamente accessibile, quella che più velocemente gli permetterà di trovare sollievo dal dolore. Si reca in un posto qui a Ulan Bator, vicino al fiume Tuula, in una di quelle strade di formidabili edifici stuccati dall’aria condominiale, eredità degli ultimi giorni della Repubblica Popolare di Mongolia.

È una cappella solida, funzionale, senza fronzoli, priva di qualunque elemento di iconografia religiosa o pseudoreligiosa. Grandi locali spogli, forti luci fluorescenti, l’odore della segatura e dell’olio di limone; potrebbe essere un qualunque laboratorio di carpentieri, se non fosse per il silenzio e per la concentrazione tutta particolare con cui gli uomini e le donne ai banchi sono intenti al loro lavoro. Shadrach paga per entrare (nient’altro che un contributo per le spese, che copre il costo del noleggio attrezzi, del legname, e i costi correnti: non certo una somma da pagare per partecipare al culto in sé), e gli viene mostrato un armadietto, in cui lascia i suoi abiti per indossare un grembiulone pulito. Poi sceglie uno dei banchi liberi. È coperto di attrezzi lucenti, ben oliati, ordinati con un occhio decisamente giapponese per la simmetria e l’armonia: ceselli di diverse grandezze in una fila disposta con precisione, un assortimento di martelli e martelletti, un grappolo di calibri, succhielli, pinze, compassi, lime, squadre, righe. L’equipaggiamento è deliberatamente assortito e abbondante, per imprimere nell’immaginazione del fedele la natura sacrale dell’arte, le origini antiche della sua pratica, la complessità del suo significato.

Nessuno gli rivolge la parola. Nessuno lo guarda. Sa che nessuno lo farà: chi entra qui deve restare solo con i propri attrezzi e il proprio legname. Uno strano senso di solennità si insinua in Shadrach mentre lui si prepara a entrare nell’abituale stato iniziale di meditazione. Nel passato veniva alla cappella per limitarsi a due orette di relax passate a tagliare e montare, trattando quest’esperienza come un divertimento sullo stesso piano di una partita di golf o di biliardo; si avvicinava a questa fase della cerimonia in maniera informale e allegra, accettandola in quanto parte della tradizione, qualcosa da fare semplicemente per entrare nello spirito della cosa: l’equivalente dei colpi di prova ritualizzati di un golfista, o della cura con cui un giocatore di biliardo passa il gesso sulla punta della stecca. Questa volta, mentre preme le due mani contro il bancone e china il capo, non si sente né stravagante, né teatrale; è consapevole di una presenza divina tutt’attorno a lui, e diventa sempre più riflessivo, introspettivo mentre questa gli penetra l’anima.

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