Istanbul è polverosa, sudicia, arcaica, esotica, e irritante. Shadrach è affascinato dalla miscela di stili architettonici, gli opulenti palazzi ottomani e le gloriose moschee dai tanti minareti, le case in legno settecentesche e gli ampi vialoni del ventesimo secolo e i frammenti sbrecciati della vecchia Costantinopoli, che spuntano dalla terra come denti spezzati, pezzetti di acquedotti, cisterne, basiliche, stadi. Ma la città è troppo caotica per lui. Lo deprime e lo repelle nonostante il fascino potente delle sua storia ricca ed elaborata. Anche adesso, vive qui più di un milione di persone, e Shadrach trova difficile affrontare una simile densità di umanità. In mostra per le strade ci sono le solite agghiaccianti tragedie della decomposizione organica, e un numero straordinario di bambini inselvatichiti, alcuni di non più di tre o quattro anni, appaiono a gruppi a ogni angolo come dei vagabondi disperati. E per ogni dove ci sono Citpol, che si spostano a coppie con circospezione. Stanno sorvegliando lui, sospetta Shadrach. Semplice paranoia? Crede di no. Pensa che Gengis Mao, pentito di aver permesso al suo medico di vagare per il mondo, lo stia tenendo sotto sorveglianza: così che al primo capriccio del Khan sarà possibile riportarlo a casa. Shadrach non si aspettava di scoprirsi in grado di svanire del tutto: anzi, il ritorno a Ulan Bator è un punto sicuramente centrale del piano di azione che comincia a prendergli forma nella testa, anche se ancora non sa quando verrà il momento giusto per tornare a casa; ma non gli piace l’idea di essere spiato. Dopo due giorni a Istanbul, un giro un po’ striminzito delle attrazioni turistiche standard, prende un volo per Roma all’improvviso. Passa lì una settimana, stabilendo il proprio quartier generale in un vecchio hotel, accogliente e lussuoso, a pochi isolati dalle Terme di Diocleziano. Anche Roma ha una popolazione densa, e il ritmo urbano è frenetico, ma per una ragione o per l’altra qui rimangono meno cicatrici della Guerra Virale e di quel dopoguerra da incubo, e Shadrach comincia a rilassarsi, a trovarsi a suo agio in un tranquillo ritmo di vita mediterraneo: passeggia per le vie splendide, si gode l’aperitivo nei bar con i tavolini all’aperto, si ingozza di pasta innaffiata con vino bianco novello nelle trattorie più nascoste, e tutti i traumi del Reparto Traumatologia diventano insignificanti. Questa è davvero la Città Eterna, capace di assorbire tutti gli attacchi più aspri da parte del tempo senza perdere niente della sua elasticità. Shadrach si reca naturalmente a vedere i monumenti imperiali, l’Arco di Tito che commemora il saccheggio di Gerusalemme da parte dei Romani, i templi e i palazzi del Campidoglio e del Palatino, il magnifico disordine del Foro, le rovine del Colosseo infestate da un passato sanguinoso. Visita San Pietro e, guardandosi intorno in Vaticano, ripensa all’offerta derisoria, corrosiva che Gengis Mao gli aveva fatto proponendogli di diventare papa. Visita la Cappella Sistina, la collezione etrusca a Villa Giulia, la galleria Borghese, e una decina delle più belle chiese barocche. Nell’inseguimento delle infinite antichità di Roma le energie paiono crescergli anziché esaurirsi. Stranamente, scopre di provare le sensazioni più forti non dinanzi ai famosi monumenti classici, ma ai vecchi casamenti grigi, alti e sottili, di Trastevere e della zona del ghetto ebraico. Sono gli stessi edifici dei tempi di Cesare, un tempo abitazioni di lusso, ora catapecchie? È possibile che siano ancora abitati, dopo duemila anni? E perché no? Gli antichi Romani sapevano costruire case di sei piani, o anche di più, e costruivano in solida pietra. E non sarebbe stato difficile, nonostante i saccheggi e gli incendi e le rivoluzioni, mantenere intatti questi palazzi, ricostruire, ripassare l’intonaco, rappezzare il vecchio e farlo ridiventare nuovo, riattare e restaurare costantemente. Queste torri grigie, dunque, potrebbero avere ospitato un tempo i sudditi di Tiberio e di Caligola, e a Shadrach deriva un piccolo brivido piacevole dal pensiero che siano stati occupati costantemente attraverso i secoli. Ma a ripensarci, probabilmente non è andata così; niente, conclude, può durare così a lungo se viene usato quotidianamente. Questi sono più probabilmente edifici del dodicesimo secolo, del quattordicesimo, perfino del diciassettesimo. Piuttosto vecchi, ma non veramente antichi. Se non nel senso che qualunque cosa preceda l’ascesa di Gengis Mao, qualunque cosa sia sopravvissuta al crollo del mondo precedente, a quell’epoca antidiluviana, è antica.