Читаем Shadrach nella fornace полностью

Ci sono più poliziotti di quanti Shadrach non abbia mai visto tutti in una volta, ce n’è più che nella stessa Ulan Bator. È come se a San Francisco un abitante su nove si fosse arruolato nella Brigata Civica di Pace. Forse è solo un’illusione della sua mente turbata, o forse la vitalità inconsueta di questa città esige una dose analogamente inconsueta di controllo poliziesco: in un modo o nell’altro, ci sono uniformi grigie e blu dappertutto, dappertutto, di solito a coppie ma non troppo raramente a gruppetti di tre, quattro, cinque. I più hanno quell’aspetto meccanico, insettoide, che pare caratteristico di quelli come loro, che fa sospettare a Shadrach che i Citpol non siano esseri nati, cresciuti e addestrati, ma piuttosto prodotti con uno stampo in qualche fabbrica mostruosa nel profondo Caucaso. E lo sorvegliano tutti. Sorvegliano, sorvegliano, sorvegliano… non può essere semplice paranoia. È possibile? Questi occhi spenti, grigi, che vigilano, duri, stupidi, impegnati a studiare da tutte le angolature Shadrach che cammina per la città? Perché lo guardano con tanta attenzione? Cosa vogliono sapere?

Mi arresteranno tra poco, si dice Shadrach.

È sicuro di essere stato sotto sorveglianza fin dalla sua partenza. Non ha dubbi che Avogadro stia ricevendo informazioni sui suoi movimenti e stia compilando rapporti giornalieri per Gengis Mao; e poi (è la sua stessa tensione sempre più forte che gli fa pensare così, o è la tensione di Gengis Mao?) l’intensità della sorveglianza pare essere aumentata, da Nairobi a Gerusalemme, da Gerusalemme a Istanbul, da Istanbul a Roma, prima uno o due Citpol di passaggio che gli gettano un’occhiata distratta, poi un’attenzione più esplicita, poi squadre intere che lo seguono di qua e di là, occhieggiano, fissano, confabulano, studiano i suoi movimenti; fino a che, forse a San Francisco, forse non prima di quando avrà raggiunto Pechino, riceveranno gli ordini dalla capitale ed entreranno in azione, decine di poliziotti sui tetti, sulle soglie delle case, agli angoli delle strade: «Va bene, Mordecai, vieni qui senza fare storie e nessuno si farà del male…».

E poi, quando è arrivato all’incrocio della Broadway con la Grant, pronto a scendere verso il brulichio di Chinatown, preso da pensieri foschi che riguardano i tre Citpol raggruppati davanti a un fruttivendolo orientale di là dalla strada, qualcuno gli lancia un grido dall’altra parte della Broadway: — Mordecai? Ehi, Shadrach Mordecai!

Al suono del proprio nome Shadrach si immobilizza, impalato nel mezzo del suo fantasticare, conscio che il gioco si è concluso, che il momento temuto è quasi giunto.

Ma l’uomo che lo sta avvicinando, muovendosi attraverso il traffico in modo goffo e strascicato, barcollando, non è un Citpol. È un uomo corpulento, dai capelli radi, con una faccia stanca e segnata e una barba trascurata venata di grigio; indossa una salopette verde consunta, una camicia pesante a disegno scozzese, un mantello rosso sbiadito. Raggiunto Shadrach, gli mette la mano sull’avambraccio in un modo che sembra richiedere sostegno fisico oltre che attenzione, e spinge la faccia vicino a quella di Shadrach, arrogandosi intimità in modo così sfacciato che Shadrach non oppone resistenza al gesto. Gli occhi dell’uomo sono acquosi e gonfi: uno dei sintomi della decomposizione organica. Ma è ancora in grado di sorridere. — Dottore — dice. La sua voce è calda, vellutata, insinuante. — Ehi, dottore, come va?

Un ubriaco. Probabilmente innocuo, nonostante trasmetta un vago senso di minaccia.

— Non sapevo di essere una tale celebrità da queste parti.

— Celebrità. Celebrità. Mmm, cazzo se sei famoso! Almeno per me, sei famoso. Ti ho notato fin da laggiù, attraverso tutta la Broadway. Non che tu sia cambiato tanto. — Quest’uomo è sicuramente ubriaco. Ha quell’affettuosità pesante, eccessivamente accattivante; è praticamente aggrappato al braccio di Shadrach. — Non mi riconosci, eh?

— Dovrei?

— Dipende. Ci conoscevamo piuttosto bene, una volta.

Shadrach perlustra quel volto gozzuto e butterato. Vagamente familiare, ma non gli viene alla mente nessun nome. — Harvard — tira a indovinare. — Dev’essere stato a Harvard. Giusto?

— Due punti. Va’ avanti.

— Scuola di Medicina?

— Prova con l’università.

— Questo è più difficile. È più di quindici anni fa.

— Toglimeli, quindici anni. E una ventina di chili. E la barba. Cazzo, tu non sei cambiato per niente. Certo, fai una vita facile. So come ti sei sistemato. — L’uomo volteggia sui piedi e, senza lasciare la presa sul braccio di Shadrach, gli dà le spalle, tossisce, si raschia la gola, sputa. Catarro e sangue. Stringe i denti in un sorriso. — Un bel pezzo del mio fegato, lì, eh? Ne perdo un po’ ogni giorno. E tu non mi riconosci davvero. Che Cristo, noi ragazzi bianchi sembriamo tutti uguali.

— Qualche altro indizio?

— Uno grande. Eravamo nella squadra di atletica insieme.

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