Gerusalemme è più fredda di come se l’aspettava Shadrach, fredda quasi come Ulan Bator in questa mattinata di primavera avanzata; e più piccola, anche, sorprendentemente compatta per un posto dov’è stata fatta tanta storia. Shadrach si stabilisce all’International, un vecchio hotel della metà del ventesimo secolo costruito in una posizione incantevole in cima al Monte degli Ulivi. Dal balcone gode di una vista superba sulla città vecchia con le sue mura. Guardandola si sente preso da un’ammirazione riverente e dall’eccitazione. Quelle due grandi cupole che risplendono laggiù… la cartina gli dice che quella più grande, d’oro, è la cupola della Moschea della Rocca, eretta sul sito del Tempio di Salomone, e quella d’argento è la Moschea di Aqsa; e quella formidabile muraglia fortificata, e le antiche torri di pietra, e il labirinto di stradine che s’intrecciano, tutto gli parla della longevità della specie umana, delle maree lente e regolari della storia, dell’arrivo e della dipartita di monarchi e imperi. La città di Abramo e di Isacco, di David e Salomone, la città che Nabucodonosor distrusse e Neemia ricostruì; la città dei Maccabei, di Erode, la città in cui Gesù soffrì e morì e risorse, la città dove Maometto, in una visione, ascese in cielo; la città dei Crociati, la città della leggenda, della fantasia, dei pellegrinaggi, delle conquiste, degli eventi che si raccolgono strato sopra strato, strati più intricati di quelli di Troia; quella città di bassi edifici di pietra bruna appena al di là della valle gli spiega che quelle ore d’apocalisse vengono seguite dalla rinascita e dalla ricostruzione, che nessun disastro è eterno. L’umore che si è impossessato di lui quand’era con Bhishma Das non l’ha lasciato con la partenza dall’Africa. Gerusalemme è davvero una città di luce, una città di gioia. Shadrach ricorda le sue prozie Ellie e Hattie, che cantavano inni battendo le mani:
Gerusalemme, casa mia lieta
Quando ritornerò?
Quando finiranno le mie pene?
Quando vedrò la gioia?
…e improvvisamente è ridiventato un ragazzo di sei, sette anni, con i calzoni blu stretti e una camicia bianca inamidata, in piedi tra queste due nere colossali, vestite dei loro abiti della domenica; e canta con loro, batte le mani, mormorando o inventandosi le parole dove non sa quelle giuste, oh, sì, Gerusalemme, Gerusalemme, guidami fino a Gerusalemme, Signore! Quella terra promessa, tanto tempo fa, lontano lontano, quella città di profeti e di re, Gerusalemme l’aurea, benedetta con latte e miele; ed eccolo qui, Shadrach, alle sue porte, trepidante e ansioso di scoprirla. Chiama un taxi.
Quando entra finalmente nella città, però, passando per la Porta di Santo Stefano e procedendo sulla Via Dolorosa, queste fantasie romantiche cominciano a evaporare, e Shadrach si chiede come ha mai potuto blaterare così allegramente, evocando a Das i tempi felici a venire. Sì, Gerusalemme è innegabilmente pittoresca, anche se chiamare un luogo “pittoresco” significa quasi insultarlo; con le stradine ripide e strette e le vecchie case solide e robuste, le sue tende affollate dove si vendono vasi e pentolame, pesce e mele, dolci e agnelli macellati, i suoi odori di spezie esotiche, i suoi uomini dal volto di falco e le vesti beduine… Ma c’è un vento freddo che soffia per i vicoli sporchi, e tutti, bambini, mendicanti, mercanti, compratori, facchini, operai, tutti hanno quello sguardo di disperazione spenta, quell’espressione, occhi vuoti e anima spezzata, che non è il segno della capacità di sopravvivere, bensì della previsione della sconfitta e della resa: