Andiamo avanti. Allucinazioni. “Un’allucinazione è una percezione visiva, uditiva, olfattiva o tattile che non ha corrispondenza nella realtà. Nella schizofrenia, le allucinazioni hanno nella maggior parte dei casi la forma di voci”. Aha! “Un paziente può essere tormentato da voci che gli ordinano di saltare giù da una finestra, o che lo accusano di crimini orrendi”. Cos’è questa storia della finestra? Può essere che anche Mangu fosse schizoide? No. No. Non è così. Mangu non era abbastanza intelligente per essere schizoide. Sono io quello che sente le voci, e le mie voci non mi danno consigli folli. “In certi casi le allucinazioni consistono semplicemente in rumori o parole isolate, o ancora al paziente può sembrare di ’udire i propri pensieri’. Altre allucinazioni comprendono visioni terrificanti, odori strani, e sensazioni fisiche fuori dall’ordinario”.
Credo che si tratti di questo. Se è così, lo accetto senza difficoltà. Ma c’è dell’altro. “Illusioni e allucinazioni non sono limitate alla schizofrenia”, dice. “Possono verificarsi a seguito di una vasta gamma di condizioni organiche (per esempio infezioni della materia cerebrale, o riduzioni dell’afflusso di sangue al cervello causate dall’arteriosclerosi).” È quella la spiegazione? Quando padre Gengis mi sussurra i suoi consigli, è solo perché qualcosa non va nel mio cervelletto? Quando Mao mi bisbiglia nelle orecchie, non è altro che un coagulo nell’arteria? Devo parlare a Shadrach di queste cose, quando torna. È lui che si preoccupa delle mie arterie. Potrebbe voler fare un altro trapianto. Dopotutto, ho ancora qualcuno delle mie vene originarie, e stanno invecchiando. Ho… quanti anni ho? Ottantasette anni? Ottantanove, novantatré? Sì, forse novantatré. È così difficile tenere il conto. Sono vecchio comunque, molto vecchio.
Grande padre Gengis, come sono vecchio!
L’aria è pulita a Nairobi; secca, fresca, tutt’altro che tropicale, nonostante la città sia a un grado pressappoco dall’equatore; a ben pensarci, più o meno la stessa latitudine del feroce Cotopaxi e della povera Quito. Quito, in alto in un paese montagnoso, era fresca anche lei, ma quello era solo un sogno, un’illusione transtemporale. Mentre ora Shadrach si trova realmente, nella misura in cui le cose sono reali, a Nairobi. — Siamo molto al di sopra del livello del mare — spiega il tassista. — Non fa mai troppo caldo qui. — L’uomo del taxi è socievole, aperto, chiacchiera volentieri: è un kikuyu, dice, intendendo la tribù a cui appartiene. Indossa degli enormi occhiali scuri, e una divisa blu che parrebbe avere cinquant’anni. Sembra sano, nonostante Shadrach si aspettasse quasi di trovare tutti, fuori da Ulan Bator, afflitti dalla decomposizione. — Parlo sei lingue — annuncia il tassista. — Kikuyu, masai, swahili, tedesco, francese, inglese. Lei è inglese, Inghilterra?
— Americano — dice Shadrach, anche se alle sue orecchie quell’etichetta ha un suono strano. Cos’altro dovrebbe rispondere, d’altronde? Mongolo?