A passeggio per la città, mezz’ora dopo essersi registrato all’hotel, fa un’altra scoperta dell’ovvio: qui tutti sono neri. Quasi tutti, almeno. Nota qualche negoziante cinese, una coppia di indiani, alcuni bianchi di una certa età, ma si tratta di eccezioni, e danno nell’occhio proprio come dà nell’occhio lui a Ulan Bator. Perché il nero qui dovrebbe sorprenderlo? Questa è l’Africa; questo è il posto dove la gente è nera. Ed era la stessa cosa, a dire il vero, quand’era piccolo a Filadelfia: i bianchi si avventuravano raramente nella sua zona, e almeno durante la prima infanzia era stato facile per lui dare per scontato che il ghetto era il mondo, che il nero era la norma, che quelle creature avvistate di quando in quando, la faccia rosa e gli occhi azzurri e i capelli lisci, erano delle rarità bizzarre, come le giraffe nel suo libro illustrato. Ma questo non è un ghetto. È una nazione, un universo, dove i poliziotti e gli insegnanti e i delegati del Comitato e i pompieri sono neri, gli ingegneri alla centrale a fusione sono neri, i chirurghi del cervello e gli optometristi sono neri, neri da capo a piedi. Fratelli e sorelle per ogni dove, eppure è distante da loro, non sente affinità ma sorpresa di fronte all’universalità del nero. Forse vive in Mongolia da troppo tempo. Vivendo in quell’amalgama poliglotta e multirazziale che circonda Gengis Mao, ha cominciato a perdere in qualche misura la sua stessa identità razziale; e, vivendo tra milioni di mongoli, ha sviluppato una rappresentazione di sé ben definita in cui è necessariamente un estraneo, una stranezza, e questo lo fa sentire alienato perfino all’interno della sua stessa gente. Ammesso che queste persone, che parlano swahili, vivono in intimità con struzzi e ghepardi, hanno nelle vene sangue che non è mai stato diluito da geni di schiavisti, possano essere considerate la sua gente.
Scopre ancora un’altra ovvietà: che Nairobi non è solo viali bellissimi e aria pulita e ritemprante, non è solo cascate di bouganvillea e ibisco. Questo posto, per quanto adorabile a vedersi, rimane a pieno titolo parte del Reparto Traumatologia, e Shadrach non deve allontanarsi di molto dal giardino dell’hotel per incontrare le masse di sofferenti. Percorrono le strade allo sbando, a decine, e tutte le fasi della malattia sono rappresentate: alcuni sono semplicemente pallidi, privi di forze, hanno ancora sul volto i primi segni di sorpresa di fronte al decadimento del loro corpo; altri si trascinano piegati in due, smagriti, completamente confusi, in certi casi già colpiti da frequenti emorragie, intontiti dal dolore e cosparsi del sudore lucido della morte imminente. Quelli che si trovano nelle fasi più avanzate del male viaggiano in orbite solitarie, incespicando ciascuno per conto suo per le strade, sa dio perché, lottando con una determinazione incomprensibile per raggiungere una destinazione che sfugge sempre, prima che il crollo finale li vinca. Spesso le vittime della decomposizione si fermano e fissano Shadrach, come se sapessero che è immune e volessero da lui qualche sorta di dono di forza, un’infusione carismatica che li investa della stessa immunità, che guarisca le loro ferite e ricomponga il loro corpo. Ma nel loro sguardo non c’è rimprovero, né invidia: è lo sguardo calmo, fisso, equanime che ci si vede indirizzare talvolta dalle bestie al pascolo, impenetrabile ma non minaccioso, privo di qualunque allusione a un mattatoio di cui ci considerino responsabili.
A tutta prima, Shadrach è incapace di sostenere quegli sguardi fissi privi di espressione. Tanto tempo fa gli è stato insegnato che un medico dev’essere in grado di guardare un paziente senza sentirsi in colpa per la propria salute, ma questo è un caso diverso. Questi non sono suoi pazienti, e lui è in buona salute soltanto perché i suoi contatti politici gli garantiscono l’accesso a una protezione che loro non possono avere. Prova curiosità di fronte alla decomposizione organica: è il grande fenomeno medico dell’epoca, la Morte Nera del suo tempo, la piaga più terribile della storia, e Shadrach ne studia gli effetti dovunque li incontri; eppure né la sua curiosità, né il suo distacco di medico, sono sufficienti a permettergli di guardare questa gente negli occhi. Si limita a lanciare loro rapide occhiate di sottecchi, finché non si rende conto che il suo senso di colpa è irrilevante. A questi relitti umani non importa se lui li guarda. Non importa loro più di niente. Stanno morendo, qui, pubblicamente; la pancia in fiamme, la mente annebbiata; che può importare se uno sconosciuto li fissa? Lo guardano; lui guarda loro. Delle barriere invisibili lo proteggono da loro.