— Non è
— Ha i suoi pregi.
— Non riesco a evitare di essere diffidente.
— Neanche da morto riesci a lasciarti un po’ andare, vero? — Lo prende per il polso e lo trascina via con sé, attraverso un deserto di sabbie scintillanti, attraverso un fiume di bianca acqua gorgogliante, attraverso un folto roveto aromatico, dentro all’oceano, la grande madre salata, e si sdraiano sul dorso a riposare, gli occhi volti al sole. Shadrach si è calmato completamente.
— Quanto tempo dura?
— Va avanti per sempre.
— Quando finisce?
— Non finisce.
— Davvero?
— È nella natura di questo stato. La morte non è altro che la continuazione della vita con altri mezzi.
— Non ci credo. “Dopo la morte, nulla”.
— E allora dove saremmo?
— Stiamo sognando.
— Lo stesso sogno? Non essere sciocco.
Degli squali mettono il muso fuori dalla calma superficie del mare. Occhieggiano fauci, denti aguzzi. Shadrach si esercita a restare intrepido. Queste bestie non gli possono fare alcun male. Dopotutto, è morto. È anche un dottore in medicina. Inghiotte oceano fino a che il fondo di sabbia lucida non è messo a nudo, e gli squali arenati si dibattono cupi di qua e di là, mordicchiando granchi e stelle marine. Shadrach ride. La morte è reale, la morte non imbroglia! Dal nord scendono venti ghiacciati, ruggiscono giù per i fianchi dell’Himalaya. Continuano infaticabili l’ascesa del North Cwm, artigliano la parete rocciosa chiodo dopo chiodo; fissano costantemente il picco lontano, che sorge formidabile, come una pustola gigantesca all’inizio della vallata. Rabbrividiscono nelle giacche a vento; stringono le piccozze nelle mani stanche; le bombole di ossigeno premono insistenti contro le spalle doloranti; ma loro continuano ad arrampicare, sono ormai in quel mondo turbinoso sopra ai settemila metri, dove solo gli yeti dai piedi piatti osano avventurarsi. Sono arrivati in vista della vetta. Dei vasti crepacci occhieggiano, ma non hanno significato; là dove ramponi e chiodi non sono d’aiuto, Shadrach e Katya si lanciano semplicemente in giganteschi balzi che solcano il cielo. È troppo facile. Shadrach non credeva che la morte fosse un posto tanto frivolo. E ora il cielo si sta scurendo, il ritmo si fa più lento; sente musica solenne, sperimenta un affievolirsi degli impulsi frenetici che l’hanno spinto fino a questo momento, in lui subentra una calma glaciale, un’atemporalità egizia. È una cosa sola con Ptah e Osiride. È un Mennone melodioso in riva al fiume divino, che aspetta mentre scorrono gli eoni. Katya gli strizza l’occhio, e nello sguardo che lui le restituisce c’è del rimprovero. La morte è una faccenda seria, non una vacanza. Ah, sì, ora l’ha preso, il ritmo giusto. È completamente assorbito dal compito di essere morto. Non si muove. Segnali vitali, zero; funzioni intellettive, zero; è arrivato al cuore dell’evento.
A poco a poco le voci calano di volume. La musica sfuma, facendosi soffusa e astratta; il suono degli strumenti ora è vuoto, non è che un profilo di suono, niente dentro, l’idea di suono piuttosto che il suono stesso, e il coro, lontano lontano, canta le parole terribili dell’antica preghiera in un tono debole, tremolante, sussurrato, elegante; un tono intenso e penetrante: