Il laboratorio è al nono piano della Grande Torre, un posto decorato da un coacervo di cavi, connettori, circuiti stampati, coassiali, casse intere di
— Guarda — dice lei trionfante, spazzando la stanza con un gesto ampio.
Lui segue con lo sguardo il braccio puntato fino a incontrare, nel mezzo del laboratorio, nell’unico spazio sgombro, una specie di rialzo; su un trono lì posato, sotto la luce abbagliante di un faretto, siede l’ultimo modello operativo dell’automa di Gengis Mao. Un solo robusto cavo giallo e rosso lo collega a un’unità di alimentazione. L’automa è una volta e mezzo le dimensioni naturali, un’imponente imitazione del Presidente, pelle plastica sopra un’armatura di metallo; il volto è una replica del tutto convincente, le spalle e il petto sono plausibilmente umani, ma al di sotto del diaframma il robot Gengis Mao è una massa incompleta di giunti e fili e circuiti scoperti, privo di pelle ma anche della stessa muscolatura meccanica interna che riempie la metà superiore. Sotto gli occhi di Shadrach, lo pseudopresidente protende il braccio destro verso di lui e, con un piccolo scatto impaziente della mano, un gesto dall’aria assolutamente umana, lo invita ad avvicinarsi.
— Non avere paura — dice Katya Lindman.
Shadrach avanza. Quando è a tre o quattro metri di distanza si ferma e aspetta. La testa del robot si volta lentamente a guardarlo. Le labbra scoprono i denti in una smorfia crudele… no, un ghigno, un ghigno inconfondibile, il ghigno freddo e terribile di Gengis Mao, quell’espressione soddisfatta di sé, si forma agli angoli delle guance corrugate: un ghigno regale, un mostruoso ghigno onnipotente. Impercettibilmente i lineamenti si ricompongono, senza transizione evidente; l’espressione del robot ora si fa minacciosa, e l’ira di Gengis Mao oscura la stanza.
— Allora? — chiede Lindman dopo qualche istante.
— Non parla?
— Non ancora. Il sistema audio è un lavoretto banale. In questo momento non ce ne occupiamo.
— Allora questo è lo show completo?
— Sì. Sembri deluso.
— In qualche modo mi aspettavo qualcosa di più. Il sorriso l’avevo già visto.
— Ma non la strizzatina d’occhio. Quella è nuova.
— Lo stesso. Katya… State aggiungendo una piuma qua e una là, ma non avete ancora un’aquila.
— Cosa credevi che ti mostrassi? Un Gengis Mao che parla e cammina? Il simulacro completo, pronto nel giro di una notte? — La delusione di Shadrach l’ha fatta adirare, è chiaro: i movimenti della bocca sono tesi, le labbra scoprono ripetutamente le gengive, mettendo a nudo quegli incisivi appuntiti da carnivora. — Siamo ancora alle fasi preliminari, qui. Ma credevo che l’occhiolino ti sarebbe piaciuto. A me l’occhiolino piace parecchio, Shadrach. — La voce le si fa più leggera, i lineamenti si rilassano; Shadrach riesce quasi a sentire le marce che cambiano dentro di lei. — Mi spiace di averti fatto perdere tempo. Ero soddisfatta della strizzata d’occhio. Volevo condividerla con te.
— È una strizzata d’occhio fantastica, Katya.