Читаем Shadrach nella fornace полностью

Avviene in fasi distinte, prima cinque colpi rapidi e secchi come spari di cannone; poi un lungo momento di silenzio totale in cui perfino il brontolio persistente che è andato avanti per ore si interrompe improvvisamente; quindi un violento scuotersi della terra e un singolo, mostruoso suono tonante, il suono più forte che Mordecai abbia mai udito, un suono che infrange le finestre e sventra i muri; poi ancora silenzio; poi il brontolio ancora una volta; poi di nuovo cannonate, bang bang bang, scoppi rapidi e duri; poi un secondo grande tuono, cinque volte più potente del primo, che getta la gente in ginocchio, le mani a proteggere le orecchie; poi silenzio, un silenzio minaccioso, sinistro, che paralizza i nervi; e poi il suono supremo e definitivo, il suono di un pianeta il cui stesso cuore si sta lacerando, un’interminabile grottesca valanga di suono che afferra le persone e spezza loro il collo, fa contorcere selvaggiamente le braccia, ballare gli occhi nelle orbite, un suono che rotola sopra Quito come se un dio infuriato la stesse calpestando. E il cielo diventa nero e un torrente di fuoco rosso sgorga fuori dal Cotopaxi e brucia con un bagliore mostruoso all’orizzonte. La montagna pare aprirsi in due. Shadrach riesce a distinguere grossi pezzi della cresta, lastroni di roccia che devono avere le proporzioni di grandi edifici, volare via liberi e levarsi per l’aria, lenti e maestosi, verso Quito. Il cono perfetto, un tempo aggraziato come il monte Fuji, è adesso una rovina, un ammasso di frammenti, appena visibile attraverso la densa nuvola di cenere e le sfere volanti di lava; non resta che una base decapitata, deformata e cadaverica. L’aria stessa sta bruciando. Non cessano gli sforzi sovrumani di uomini e donne che fuggono, muovendosi ancora più lentamente, trascinandosi su gambe divenute piombo verso una salvezza che non sarà possibile raggiungere; ma li coglie il vomito, portano le mani alla gola, cercano disperatamente di respirare, soffocano, crollano a terra.

— Ayuda. Ayuda.

Ma non vi è aiuto da nessuna parte. Muoiono qui in questo pomeriggio di una radiosa giornata che radiosa non è più.

Lo stesso Shadrach, che cerca di respirare un’atmosfera che è metà cenere e metà monossido di carbonio, cade a terra, si rialza, cade nuovamente, si costringe ad alzarsi. Si ricorda di essere un medico e si inginocchia al fianco di una donna caduta, non è che una ragazza in realtà, la faccia in preda a contorsioni e, a causa dell’asfissia, nera ormai quasi quanto quella di lui.

— Soy medico.

— Gracias, Señor. Gracias.

Gli occhi della giovane vibrano, puntati su di lui in attesa di aiuto, cure, dell’acqua, qualunque cosa. Come può aiutarla? È un medico, sì, ma può insegnare ai moribondi a respirare aria avvelenata? Lei si agita, trema, poi, curiosamente, sbadiglia. Si sta addormentando tra le braccia di Shadrach. Ma è una sonnolenza letale, e non si risveglierà. Lui la poggia per terra. Procede oltre, il fazzoletto a coprire bocca e naso. Inutilmente. Inutilmente. Cade di nuovo a terra e non si rialza, giace in una pila di vittime che singhiozzano e si lamentano, vittima lui stesso.

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