E la fuga da Quito ha inizio. Non è ancora successo niente, nient’altro che un ruggito e un sibilo e una colonna di vapore che si è lanciata verso il cielo, ma nella città la gente abbandona le case, portando con sé poco o niente; afferrano magari un crocifisso o un bambino o un gatto o pochi vestiti, affollano le strade, scendono cupi e rapidi verso nord, lunghe file di persone che si muovono con le spalle chine, nessuno si volta a guardarsi dietro, tutti sono diretti via dalla città, via dal Cotopaxi, dalla spaventosa nuvola color cremisi che ora incombe sul monte; via dalla morte che presto arriverà a Quito. Questa è gente che sa il fatto suo quando si tratta di vulcani, e non si lascia tentare dall’idea di restare a godersi lo spettacolo. Shadrach Mordecai è trascinato dalla marea umana. Torreggia su questa gente come il vulcano sulla città, ed è oggetto di occhiate strane, e alcuni si aggrappano alle sue braccia come facendo appello a lui, come se pensassero che è una specie di divinità nera venuta a portarli in salvo. Ma lui non guida nessuno. Lui segue, fugge senza poter fare altro, come tutti. A differenza degli altri, lancia di tanto in tanto uno sguardo dietro le spalle. Quando gli è possibile, quando la pressione dell’onda di profughi non è troppo forte, si ferma e si volta a guardare cosa sta succedendo. Il vulcano ora sputa piccoli getti di lava e di ceneri leggere, materia polverosa che, trasportata dal vento, cambia il colore dell’aria, tingendola di giallo, virando le sfumature del sole verso un rosso aranciato. La terra pare brontolare. La città si scuote tutta. Automobili cariche di cittadini ben vestiti si spostano lentamente attraverso le strade, incapaci di farsi largo tra le masse di pedoni in fuga; ci sono collisioni, grida, litigi. Dopo non molto le macchine si sono fermate del tutto e i loro passeggeri, con espressioni cariche di disprezzo, si fanno strada tra le file della gente più umile. E da un’ora o due che Shadrach sta marciando ormai, forse addirittura da tre, trascinandosi meccanicamente; l’aria è divenuta rarefatta e gelata, con un acre odore di zolfo, e sebbene sia solo metà pomeriggio la pioggia di cenere ha oscurato la luce a tal modo che i lampioni nelle strade si sono accesi — la cenere si accumula per i viali come neve leggera, arriva già alla caviglia — e il Cotopaxi non ha smesso di ruggire e sibilare, la gente non ha smesso di andarsene verso il nord. Mordecai sa cosa sta per succedere. Con l’inquietante visione bifronte che è propria di chi viaggia nel tempo, guarda in avanti oltre che dietro di sé, ricordando il futuro. Tra non molto ci sarà l’esplosione che sentiranno a mille miglia di distanza, il terremoto, le nuvole di gas venefico, il riversarsi folle di tonnellate di cenere vulcanica che oscurerà il sole su tutto il pianeta, e in questa notte di Cotopaxi gli antichi dèi si scateneranno sulla terra e gli imperi del mondo si sbricioleranno. Lui ha già vissuto questa notte una volta, ma non con la consapevolezza che ha ora. Da qualche parte, molto lontano, in questo momento c’è Shadrach quindicenne, tutto braccia e gambe e grandi occhi; segue le sue lezioni e sogna la scuola di Medicina, e anche lui sentirà il rumore dell’esplosione, pur attutito e sordo dopo aver percorso il mondo da Quito a Filadelfia, e penserà che si tratta forse della bomba di un terrorista nel centro della città, ma al mattino vedrà il cielo tinto di giallo e il sole gonfio e rosso, e poi la polvere sottile continuerà a cadere per giorni, affrettando il crepuscolo in quelle sere d’estate, e dal Sudamerica filtreranno notizie della terribile eruzione, della perdita di centinaia di migliaia di vite. Quel che il giovane Shadrach non sa, quel che nessuno sa, tranne lo straniero che marcia per i dintorni settentrionali di Quito sotto una nuvola di cremisi sporco, è che l’eruzione del Cotopaxi è più che un evento naturale: è il segnale di un’apocalisse politica, la caduta delle nazioni che sta per iniziare, il tempo di Gengis Mao che sta per arrivare.
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Sì. Sì. La fine del mondo.
E ora giunge l’esplosione.