Nikki Crowfoot tira un sospiro. — Lasciamo perdere, Shadrach. Non vale la pena di fare tutto questo dibattito. Al laboratorio Avatar dobbiamo confrontarci tutto il tempo col principio che l’idea corrente di un “sé” è piuttosto priva di senso, che è necessario pensare in termini di sistemi più grandi di gestione dell’informazione, ma forse sto estendendo il principio a campi in cui non è necessario che si spinga. O forse semplicemente io e te non riusciamo a comunicare molto bene in questo momento. — Chiude gli occhi per qualche istante e stringe i denti come per dare sfogo a una corrente che le pulsa insistente attraverso il cervello. Un altro bombardamento di fuochi artificiali illumina il cielo di vivaci macchie viola e verdi. Una musica selvaggia e aspra, tutta sibili e stridori, attraversa l’aria. Dopo qualche momento Crowfoot si rilassa, sorride, indica la tenda dei transtemporalisti, illuminata di una luce tremolante, a pochi metri da loro. — Abbiamo parlato anche troppo — dice. — Ora un po’ di divertimento.
6
— Le spiegherò il metodo del nostro rito, se lo desidera — dice il transtemporalista. Voce tipicamente mongola, profonda e impastata, volto monolitico, tutto naso e niente zigomi, gli occhi nascosti nell’ombra.
— Non è necessario — gli dice Mordecai. — Sono già stato qui.
— Ah. Certamente. — Un lieve inchino ossequioso. — Non ne ero sicuro, dottor Mordecai.
Shadrach è abituato a essere riconosciuto. La Mongolia è piena di stranieri, ma i neri fra loro sono ben pochi. Al sentir pronunciare il suo nome, quindi, la sensazione di sorpresa lo sfiora appena. Nonostante questo, l’anonimato qui sarebbe stato gradito. Il transtemporalista si inginocchia e con un cenno lo invita a fare lo stesso. Sono in un piccolo cubicolo privato, formato da pesanti tappeti drappeggiati sopra a corde tese, all’interno dell’ampia tenda scarsamente illuminata. A metà distanza tra di loro una spessa candela gialla, posta dentro a una coppa di peltro sul pavimento in terra battuta, manda una luce tremolante, e una pesante spirale di aspro fumo scuro sale verso la sommità della tenda. Nelle narici di Mordecai c’è ogni tipo di odori ancestrali mongolici, l’effluvio acre delle pelose pelli di capra che fanno da pareti, il fetore di quello che potrebbe benissimo essere un falò di letame a pochi metri. Il pavimento è coperto generosamente di morbidi trucioli di legno, un lusso in questa terra dove gli alberi scarseggiano. Il transtemporalista è intento alle operazioni alchimistiche del suo rito, mescola liquidi in un alto recipiente di peltro, un liquido blu oleoso e uno più fine, scarlatto, li agita con un mestolo d’avorio che crea vivaci spirali di colore; ora aggiunge un pizzico di una polvere verde, poi di una gialla. Messinscena, dal primo all’ultimo gesto; Mordecai sospetta che solo una di queste sostanze sia la droga vera e propria, le altre semplice decorazione. Ma i rituali esigono mistero e colore, e questi preti poco inclini al sorriso, che proclamano tutto il tempo e tutto lo spazio come loro territorio, devono ravvivare i loro effetti speciali come meglio possono. Shadrach si chiede quanto lontana si trovi Nikki in questo momento. Sono stati fatti separare all’ingresso di quel labirinto che è la tenda dei transtemporalisti, ciascuno dei due condotto separatamente verso l’ombra da accoliti silenziosi. Il viaggio nel tempo è un viaggio che si intraprende in solitudine. Il mongolo conclude le sue operazioni di farmacia e, reggendo con devozione il calice nelle due mani, lo porge a Mordecai passando al di sopra della fiamma incerta della candela.
— Beva — dice l’uomo, e, sentendosi un po’ come Tristano, Shadrach beve. Restituisce il calice. Torna a sedersi per terra, in attesa.
— Mi dia le mani — mormora il transtemporalista.