Il chirurgo e la sua squadra iniziano la parte più faticosa dell’operazione. Qualunque macellaio è capace di fare un’incisione, ma solo un artista sa eseguire suture perfette. Warhaftig ricongiunge le carni con un altro laser, che salda invece che tagliare. Lentamente, senza mostrare segni di affaticamento, collega le arterie richiuse, le vene, il condotto biliare, al nuovo fegato. Gengis Mao è inerte adesso, pare in coma, gli occhi vitrei, le labbra prive di forza; Shadrach Mordecai ha già visto questa reazione in precedenza e la sa interpretare. Non è un segno di sfinimento, né di shock. Non è altro che una specie di esercizio yoga attraverso il quale il Presidente si dissocia da questa operazione noiosa e interminabile. I suoi segnali vitali sono ancora forti, con una preponderanza di ritmi alfa nell’attività cerebrale. Warhaftig continua a lavorare duro. Il fegato è stato installato. La pulsazione del Khan aumenta di velocità e sono necessarie misure correttive, ma questo è previsto; non c’è motivo di allarmarsi. Warhaftig ricollega meticolosamente peritoneo e strati muscolari e derma ed epidermide, collaborando ora con il computer che gli fornisce i dati sulla stratificazione. Ciascuna singola giunzione è impeccabile. La formazione di cicatrici sarà minima. Ora la parete addominale è richiusa. Warhaftig indietreggia, calmo, soddisfatto di sé, ed esseri meno divini prendono il suo posto. Il trapianto è stato portato a termine in cinque ore esatte. Mordecai si fa avanti per studiare il volto di Gengis Mao. Il Presidente dorme, o così parrebbe, i muscoli facciali rilassati, gli occhi immobili, il petto si gonfia e scende con movimenti regolari; ma no, ma no, l’ombra di Shadrach pare sufficiente a risvegliare la coscienza del Khan, perché le sue labbra sottili si ritraggono in un sorriso un po’ rigido; l’occhio sinistro si apre e si produce in una strizzatina, inequivocabile.
— E un altro è andato — dice Gengis Mao, la voce ferma e chiara.
5
A sera appena iniziata, dunque, svolto il lavoro del giorno e assolte le responsabilità ippocratiche, per Shadrach Mordecai è Karakorum: il campo giochi di questa stanca classe dirigente mondiale. Nikki Crowfoot sarà sua compagna di gioco.
La passa a prendere tre ore dopo l’operazione al laboratorio del Progetto Avatar, al settimo livello della Gran Torre del Khan. Non è niente di meno che uno zoo questo, tra le pareti verdi ci sono gabbie con animali da ogni parte, animali folli, falchi che fanno chicchirichì e gorilla che si arrampicano per gli alberi, e quantità colossali di apparecchiatura per esperimenti là dove le gabbie lasciano dello spazio. L’aria quaggiù ha un cattivo odore da laboratorio, una puzza che Mordecai ricorda bene dai suoi giorni alla Harvard Med, un misto di Lysol e formaldeide e alcol etilico e merda di topo e fumi di bruciatori Bunsen e isolante bruciacchiato e quant’altro. La maggior parte del personale del Progetto Avatar se n’è andata al termine della giornata lavorativa, ma Crowfoot, in camice grigio da laboratorio e sandali consumati, è occupata a una pila alta cinque metri di computer e testine di lettura e schermi televisivi nel momento in cui lui entra. Lei è in piedi con le spalle alla porta, intenta a osservare esplosioni pirotecniche di verde, blu e rosso scatenarsi e contorcersi selvaggiamente sul volto di un oscilloscopio gigantesco. Shadrach le scivola vicino e da dietro, infilate le mani sotto le braccia di lei, le dispone a coppa sui seni coperti dal camice. Il dorso le si irrigidisce al primo tocco delle dita di lui, poi lei si rilassa immediatamente e non si volta.
— Idiota — dice, ma c’è solo affetto nella sua voce. — Non distraimi. Ho programmato una simulazione triplice. Quello laggiù è un nastro del Gengis Mao autentico, in verde, e quello blu subito sopra è il nostro costrutto-personalità del sette aprile, e…
— Dimentica tutto. Gengis Mao è morto sotto i ferri quando gli abbiamo estratto il fegato. La rivoluzione è cominciata un’ora fa. La città…
Lei si agita nell’abbraccio di Mordecai, si volta di scatto, lo fissa con gli occhi spalancati, attonita.
— …è in fiamme, e se ascolti bene arriva fin qui il rumore delle statue che stanno facendo saltare…
Lei vede l’espressione sulla faccia di Shadrach, e comincia a ridere. — Idiota!
— Basta così, Shadrach.
— Va bene. È in ottima forma, seriamente. Gli sono bastati dieci minuti per rimettersi, e ora sta dirigendo una sessione di quadriglia alla mongola nel Vettore di Comitato Uno.
— Shadrach…
— Non posso farci niente. Sono nella mia fase maniacale postoperatoria.
— Be’, io no. È stata una giornata disastrosa qui. — In effetti la sua depressione è evidente, non appena lui si calma quel tanto da rendersene conto: gli occhi di Nikki sono tirati, il volto teso, le spalle insolitamente afflosciate.
— I vostri esperimenti sono falliti?