Alla fine della settimana, con Gengis Mao che si sta rimettendo rapidamente, Shadrach si concede una serata a Karakorum. Ci va da solo, in una piacevole serata estiva, con l’odore dei fiori da poco sbocciati e la pioggia che si annuncia da lontano, e prende un cubicolo nel padiglione del sogno di morte; si spoglia e si cinge i fianchi col panno, si fascia il petto con le strisce colorate, prende il talismano lucente dalle mani della guida dalla testa di leonessa, osserva il disegno di linee spiraleggianti, si perde nell’allucinazione. Ancora una volta, muore. Abbandona speranza, paura, preoccupazione, sgomento, ansietà, bisogno; rinuncia al respiro e alla vita, muore sfuggendo al mondo e rinasce in un altro luogo, si eleva al di sopra del suo guscio vuoto e consumato, lo guarda dall’alto, quella forma vuota bruna e allungata che come un ragno proietta al di fuori arti inutili, inerti, e se ne fluttua fuori, nella fragranza del vuoto, dove il tempo e lo spazio sono stati liberati dai loro ormeggi. Tutto gli è accessibile, perché è morto. Entra in una città di carretti trainati da buoi, di vicoli, di bassi edifici di legno che formano labirinti vasti e impenetrabili, un luogo di squallore pittoresco e di sporcizia medievale, e vede i cavalieri e le dame nelle loro vesti di broccato verde e scarlatto: inciampano nelle strade di terra battuta priva di pavimentazione, ululano, singhiozzano, tremano, sudano, piangono dinanzi al Signore, stringono nelle mani le parti che pulsano rigonfie, sotto le braccia e in mezzo alle gambe. Sì, sì, la Morte Nera, e Shadrach si aggira in mezzo a loro dicendo: “Io sono Shadrach, colui che guarisce, venuto dalla terra dei morti per salvarvi”, e tocca i loro gonfiori di fuoco, li fa alzare in piedi, li restituisce alla vita, e loro cantano inni al suo nome. Si sposta in un’altra città, un luogo di bambù e di seta, di giardini ricchi di crisantemi e ginepri e piccoli pini contorti, e nell’immobilità del giorno una palla di fuoco esplode nel cielo, una grande nuvola della forma di un fungo si gonfia verso la volta celeste, le case s’incendiano, la gente si affolla nelle strade che bruciano, gente piccola di corporatura, dagli occhi a mandorla, la pelle gialla, e Shadrach, in piedi come una torre d’ebano in mezzo a loro, in tono dolce dice loro di non aver paura, dice che è solo un sogno ciò che li affligge, che il dolore e perfino la morte possono essere respinti, e protende le mani verso di loro, dando loro sollievo, prosciugando il fuoco che li tortura. Il cielo si riempie di cenere e fuliggine e lapilli e ancora una volta è la notte di Cotopaxi, il vulcano ruggisce, sibila, ronza, l’aria si fa veleno, e il giovane medico nero si inginocchia per strada, soffiando nella bocca di chi è caduto a terra, aiutandoli a rialzarsi, dando loro conforto. Poi prosegue oltre. Le orde assire scorrono le strade di Gerusalemme, ululando, sventrando senza pietà, e Shadrach ricuce pazientemente i corpi martoriati dei caduti, dicendo: “Alzatevi, camminate, io sono colui che guarisce”. Le grandi bestie lanuginose fuggono dalle nevi che si sciolgono sotto il sole, fattosi improvvisamente colossale, la gente delle caverne diventa smagrita e gracile, e Shadrach insegna loro a nutrirsi di erbe e di semi, a raccogliere le bacche dei roveti che hanno appena germogliato, a tendere sbarramenti attraverso le correnti per prendere in trappola i pesci vivaci, e questa gente lo adora e dipinge la sua immagine sulle pareti della caverna sacra. Shadrach toglie Gesù dalla croce quando i soldati romani se ne vanno alla taverna, caricandosi il corpo inerte su una spalla e recandosi in tutta fretta in un capanno oscuro, dove ripulisce del sangue le mani e i piedi feriti, applica medicamenti e unguenti, prepara una mescola di erbe e succhi e Gliela porge da bere perché guarisca, dicendoGli: “Va’. Cammina. Vivi. Predica”. Con una rete ricupera dalle acque del Nilo i frammenti del corpo di Osi ride, ricongiunge le membra lacerate, soffia la vita nel dio caduto e convoca Iside, dicendole: “Ecco Osiride. Io, Shadrach, lo restituisco a te”. Il cielo si fa verdeggiante, con strane raffiche di pioggia, e la Guerra Virale scoppia al di sopra delle città del genere umano, e la decomposizione misteriosa penetra i corpi dei membri del genere umano, la gente si lamenta e cade a terra e Shadrach li fa rialzare, dicendo: “Non temete niente. La morte è passeggera. La vita vi attende”. E nei cieli vi è il volto sorridente di Gengis Mao. Shadrach va alla deriva attraverso i secoli, si muove libero per il tempo e lo spazio, e gradualmente si accorge di non essere più solo, si rende conto che c’è una donna al suo fianco: lo tira per la manica, sta cercando di dirgli qualcosa. Lui la ignora. Sente cori celestiali che cantano il suo nome: — Shadrach! Shadrach! — E le voci celestiali gridano: — O Shadrach! Tu sei davvero colui che guarisce, sei il principe dei principi! Eri Shadrach, sarai Gengis! Tutti rendano onore a Shadrach! — E una voce di tuono prorompe: — Sarai conosciuto d’ora in poi col nome di Gengis III Mao V Khan!