Si incontrano nel salone di ricreazione al cinquantesimo piano, un luogo di appuntamento abituale del personale di medio rango. Il servizio è discreto. La sala è un impressionante ovale a volta alta, decorato con dei festoni metallici sottilissimi, dello spessore di poche molecole: color oro, scendono dal soffitto e volteggiano dolcemente nelle correnti d’aria. Un gigantesco ritratto di Gengis Mao occupa l’intera parete orientale del salone, e sul lato opposto ce n’è uno di Mangu.
Katya indossa quello che per lei è un abito insolitamente succinto, un involto attillato fatto di un morbido tessuto color ruggine, tagliato in modo da lasciarle scoperte le spalle forti e ampie e mettere in mostra il seno abbondante. Forse ha anche messo del profumo. Shadrach non l’ha mai vista fare la minima concessione alla femminilità convenzionale, e ora è sorpreso e deluso a vederla puntare su uno stile di seduzione così poco sottile. È completamente fuor di carattere per lei, e completamente immotivato. Ma forse Katya si è stancata di restare fedele a un carattere, a un personaggio: occhi severi, denti affilati, bocca crudele, mente fredda ed efficiente, la scienziata svelta e abile. Gli ha già confessato il suo amore; forse ora vuole recitare la parte del tipo di donna per la quale l’amore è un’eventualità plausibile. Sciocco da parte sua, se è questo il suo gioco; Shadrach preferisce di gran lunga la Katya che conosce. O che crede di conoscere. L’amore non è una festa in maschera.
Gli dice: — Credevo che non saresti più tornato.
— Non ne ho mai avuto intenzione. Non stavo cercando di sparire. Solo di allontanarmi per un po’ e pensare ben bene alle cose.
— E ci sei riuscito?
— Lo spero. Lo saprò presto.
— Non farò domande.
— No. Non farne.
Katya sorride. — Sono contenta che tu sia tornato. Ma sono preoccupata per il pericolo che corri.
— Se io non mi preoccupo, perché dovresti farlo tu?
— Non c’è bisogno che risponda a questa domanda. — La voce ha un tono velato, quasi teatrale. Katya si sporge in avanti e dice: — Mi sei mancato, Shadrach. Mi ha stupito vedere quanto mi mancavi. Non ti piace sentirmi dire cose del genere, vero?
— Cosa te lo fa pensare?
— La tua faccia. Sembri così a disagio. Non vuoi sentirmi dire parole tenere. Non pensi che sia appropriato per la dura, cattiva dottoressa Lindman parlare così.
— Sono semplicemente poco abituato a vederti così. È un lato di te che non mi è familiare.
— Probabilmente non ti piace neanche come sono vestita stasera. Ma posso ridiventare l’altra Katya, se vuoi. Aspettami. Vado a cambiarmi, mi metterò il camice da laboratorio.
Suona quasi seria.
— Basta — dice Shadrach. Le prende la mano. — Sei stupenda stasera.
— Grazie. — La voce di Katya è acciaio. Ritrae la mano.
— Be’, è così. Ed è normale che io lo dica, quindi l’ho detto. È così che si gioca. Ora a te tocca dire…
— Smettiamola coi giochi, Shadrach. Okay?
— Okay. Ti sei vestita così per me o per te?
— Per tutti e due.
— Ah. Tanto per fare, giusto? Nient’altro che per questo. Perché avevi voglia di essere sexy. Giusto?
— Giusto — dice lei. — Va bene?
— Va bene. Va bene.
— E va bene che ti dica che mi sei mancato? Non costringermi a essere una specie di macchina, Shadrach. Non costringermi a essere l’immagine che hai tu di me. Io non ti sto chiedendo di dirmi anche tu che ti sono mancata. Ma lasciami il diritto di esprimere quel che provo
— Okay — dice lui, e le riprende la mano, e lei non sfugge più. Dopo qualche istante Shadrach dice: — È successo qualcosa mentre ero via?
— Sai già dei mal di testa del Khan, suppongo.
— Certo. È per questo che sono tornato proprio ora. non appena ho raccolto i suoi segnali telemetrici, a Pechino.
— È una faccenda grave?
— Dovremo operare — dice Shadrach. — Non appena sarà pronto un certo equipaggiamento speciale che ho ordinato.
— Un intervento al cervello è particolarmente rischioso?
— Non quanto ti aspetteresti. Ma il Khan non ama l’idea in generale, laser che gli curiosano nel cranio, eccetera eccetera. Non l’ho mai visto così spaventato per un’operazione. Ma andrà tutto benissimo. Cos’altro è successo?
— Ci sono stati i funerali.
— Sì. Lo so. Ero a Gerusalemme quel giorno, o forse a Istanbul. Ho visto delle fotografie qualche giorno più tardi.
— È stato mostruoso — gli dice Katya. — È durato giorni interi. Dio sa quanto dev’essere costato. Praticamente tutto si è fermato; ci sono stati i discorsi, le parate, le bande di ottoni, gli aeroplani in formazione, rituali e celebrazioni di ogni sorta. E Gengis Mao seduto lì, nel mezzo della piazza, a bersi tutto.
— Che peccato essermelo perso.
— Sono sicura che avevi il cuore spezzato.
— Sì. È stato terribile. — Ridono. Shadrach sta cominciando a pensare che gli piace abbastanza l’aspetto di Katya con quel vestito. Dice: — E poi? Il tuo progetto come va?