— Padre Gengis — dico. — Attraverso novecento anni sono venuto a renderti omaggio.
Mi guarda senza troppo interesse. Dopo qualche istante mi porge una tazza. - Bevi dell’airag, vecchio.
Beviamo dalla stessa tazza, prima io, poi il Gran Khan. È vestito in modo semplice, senza mantelli scarlatti, stole di ermellino, corone, soltanto il cuoio di un costume da guerriero. La sommità della sua testa è stata rasata e, dietro, i capelli gli raggiungono le spalle. Potrebbe uccidermi con un colpo della mano sinistra.
— Cosa vuoi? — domanda.
— Vederti.
— Vedermi. E che altro?
— Dirti che vivrai in eterno.
— Io morirò come muoiono tutti, vecchio.
— Il tuo corpo morirà, padre Gengis. Il tuo nome vivrà nei millenni.
Lui ci pensa su. - E il mio impero? Che ne sarà del mio impero? I miei figli regneranno dopo di me?
— I tuoi figli regneranno su mezzo mondo.
— Mezzo mondo — dice con calma Gengis Khan. — Solo mezzo? È la verità questa, vecchio?
— Il Catai sarà loro…
— Il Catai è già mio.
— Sì, ma loro l’avranno tutto, giù fino alle giungle torride. E regneranno sulle alte montagne, sulla terra russa, e sul Turkestan, l’Afganistan, la Persia, tutto quel che si stende fino alle porte dell’Europa. Mezzo mondo, padre Gengis!
Il Khan dei Khan grugnisce.
— E ti dico anche questo. A novecento anni da oggi, un khan chiamato Gengis regnerà su tutto quel che vi è da mare a mare, da riva a riva, e tutte le anime di questo mondo lo chiameranno signore.
— Un khan del mio sangue?
— Un vero tataro — lo rassicuro.