Un grande muscoloso ragazzone, che torreggia su di me. Spalle colossali, una faccia paffuta, innocente. È profondamente imbarazzato. Ha appena preso 18 in composizione letteraria e gli occorre immediatamente un saggio sui romanzi di Kafka, che lui non ha letto. (È la stagione del football; è una mezz’ala ed è proprio assolutamente indispensabile alla squadra). Gli dico le condizioni e lui frettolosamente accetta. Mentre resta lì in piedi, io, di nascosto, lo "leggo" rapidamente, rilevando il suo quoziente intellettivo, il suo probabile vocabolario, il suo stile. È più sveglio di quel che sembra. La maggior parte lo è. Potrebbero scrivere i loro saggi da sé, piuttosto bene, se soltanto ne avessero il tempo. Io prendo alcuni appunti, mettendo per iscritto le mie immediate impressioni sul suo conto, e lui va via tutto contento. Dopodiché, gli affari si fanno vivaci: lui manda un "fratello" della sua associazione studentesca, il fratello di associazione manda un amico, l’amico manda da me uno dei
2
Quando aveva sette anni e mezzo e creava una quantità enorme di problemi al suo insegnante di terza, mandarono il piccolo David dallo psichiatra scolastico, il dottor Hittner, per un controllo. L’istituto era uno di quelli privati, costosi, su una tranquilla stradina tutta coperta di foglie, nella zona di Park Slope a Brooklyn; l’orientamento era socialista-progressista, con una pesante base pedagogica marxista, freudiana e deweyana, e lo psichiatra, uno specialista nei disturbi dei ragazzi della classe media, veniva ogni mercoledì pomeriggio per scrutare nell’animo di bambini difficili. Adesso era la volta di David. I suoi genitori diedero il loro consenso, naturalmente.
Erano molto preoccupati per il suo comportamento. Tutti erano d’accordo che lui era un ragazzino brillante: era straordinariamente precoce, dotato di una capacità di capire quel che leggeva pari a quella di un ragazzo di dodici anni; gli adulti lo trovavano intelligente da far paura. Però, in classe, era indisciplinato, rumoroso, maleducato; i compiti in classe, inevitabilmente elementari per lui, lo portavano all’esasperazione; suoi unici amici erano i disadattati, che lui perseguitava crudelmente. La maggioranza dei bambini lo odiava e tutti gli insegnanti avevano paura della sua imprevedibilità. Un giorno aveva scaricato tutto un estintore solo per vedere se spruzzava schiuma, come prometteva. La spruzzava. Portò a scuola alcune bisce e le lasciò libere nell’auditorium. Scimmiottava i compagni di classe e anche gli insegnanti con maligna precisione.
— Al dottor Hittner piacerebbe fare una piccola chiacchierata con te — gli disse sua madre. — Ha sentito dire che tu sei proprio un ragazzo speciale e gli piacerebbe poterti conoscere meglio -. David si oppose, prendendo come bersaglio il nome dello psichiatra: — Hitler? Hitler? Non ho bisogno di parlare con Hitler!
Si era alla fine del 1942 e quell’infantile gioco di parole era inevitabile; lui, però, vi si aggrappò con irritante testardaggine. — Il dottor Hitler ha bisogno di vedermi. Il dottor Hitler ha bisogno di conoscermi -. Sua madre disse: — No, David, è
Alla fine ci andò. Nell’ufficio dello psichiatra si irrigidì, e quando il dottor Hittner sorrise benignamente e disse: — Eccoci qui, David — David alzò di colpo un braccio, rigido, e scattò: —
Il dottor Hittner trattenne una risata.