A quei tempi c’era un vecchio chiosco di ghisa al livello della strada che segnava l’accesso alla sotterranea; era proprio tra due corsie piene di traffico, e gli studenti, le menti assenti infarcite di Kierkegaard, Sofocle e Fitzgerald, finivano sempre per andare a sbattere contro le macchine e restare uccisi. Adesso il chiosco non c’è più e gli accessi alla metropolitana sono sistemati più razionalmente, sui marciapiedi.
Cammino lungo la 116a. Alla mia destra, l’ampio prato di South Field; alla mia sinistra, i bassi gradini che portano alla Low Library. Ricordo South Field quando era un campo per l’atletica proprio in mezzo al campus: sporcizia scura, le linee di base, una palizzata. Nel mio anno di matricola ho giocato a softball, lì. Avevamo gli armadietti nella hall dell’Università, e andavamo là a cambiarci; poi, con addosso scarpette da ginnastica, camiciotti a maniche corte e calzoncini d’un grigio sbiadito, sentendoci nudi in mezzo agli altri studenti in abito da passeggio o in uniforme ROTC, facevamo di corsa gli interminabili gradini che portano al South Field per un’ora di attività all’aria aperta. Ero bravo a softball. Non tanti muscoli, ma riflessi pronti e buon occhio, e poi avevo il vantaggio di sapere quello che aveva in testa il lanciatore. Lui se ne stava lì a pensare: "Questo qui è troppo magrolino per il gioco pesante, gli farò un tiro alto e veloce", e io attendevo la palla al punto giusto e la scaraventavo nella zona di sinistra, toccando tutte le basi prima che chiunque si rendesse conto di che cosa stava succedendo. Oppure gli altri tentavano una specie di rozza strategia del tipo batti-e-corri, e io mi muovevo senza sforzo per prendere al volo il battitore e cominciare il secondo giro.
Ovviamente era soltanto softball e i miei compagni facevano di solito la figura dei grassi e degli inetti, che non riuscivano neppure a correre (se solo avessero potuto leggere il pensiero), mentre io gustavo l’insolita sensazione di essere un atleta fuori del comune e fantasticavo di giocare da interbase per i Dodgers. I
Salgo i gradini e mi metto a sedere a una decina di metri alla sinistra della statua di bronzo dell’Alma Mater. È questo il mio ufficio, con il buono o con il cattivo tempo. Gli studenti sanno dove cercarmi, e quando io mi trovò lì la voce fa presto a spargersi. Ci sono altre cinque o sei persone che forniscono il servizio che fornisco io — laureati senza soldi, in genere — però io sono il più perspicace e il più attendibile, e ho un seguito entusiasta. Oggi, però, gli affari stentano ad avviarsi. Sono qui seduto da venti minuti, diventando via via sempre più irrequieto, dando distratte occhiate a Beckett, restando a fissare l’Alma Mater. Qualche anno fa un dinamitardo estremista le aprì un foro nel fianco; però adesso non c’è nessun segno del danno. Ricordo di essere rimasto attonito alla notizia, e poi di essermi meravigliato per la mia reazione: perché avrei dovuto prendermela per una stupida statua che simboleggiava una stupida scuola? Questo avveniva intorno al 1969, credo. Laggiù, nel Neolitico.
— Mr. Selig?