Charlie disse: — Di possibilità ne vedo due, io. Potrebbe essere stata un’allucinazione, pura e semplice. La gente ne ha, immagino. Quanto a
— Un fatto del tutto normale: che, cioè, tu abbia veramente visto un verme con le ali; voglio dire, che può esistere una cosa del genere per quel che ne so io. Tu dapprima ti sei sbagliato credendo che non avesse le ali, perché le ali erano piegate. E quella che tu hai preso per un’aureola era solo una specie di cresta o di antenna o simili. Ci sono degli insetti maledettamente buffi.
— Già, — disse Charlie. Ma non lo credeva: ci possono essere degli insetti buffi, ma non un insetto che d’improvviso mette su ali e aureola e s’innalza verso…
Prese un’altra sorsata di whisky.
II
Il pomeriggio e la sera della domenica li passò con Jane, e l’episodio del verme in ascensione scivolò in un recesso della sua mente. Qualsiasi cosa — tranne Jane — aveva la tendenza a finire lì quando Charlie era con lei.
All’ora di andare a dormire, quando fu di nuovo solo, riaffiorò — il pensiero, non il verme — in maniera tanto perentoria da non lasciarlo dormire. Così, si alzò e si sedette nella poltroncina vicino alla finestra: aveva deciso che l’unico modo per togliersi quella storia dalla mente era di considerarla in ogni sua parte. Se fosse arrivato a fare il punto della situazione e a decidere che cosa era realmente successo là fuori, sul bordo dell’aiuola, allora, forse, sarebbe riuscito a dimenticarsene completamente.
D’accordo, si disse, cerchiamo di essere rigorosamente logici.
Aveva ragione, Pete, a proposito delle tre possibilità: allucinazione, sogno, realtà. Ora, tanto per cominciare,
Realtà? Anche questa ipotesi era inammissibile. Faceva presto Pete a parlare della stranezza degli insetti e della possibilità di antenne e simili… Pete non l’aveva
Antenne? Sciocchezze.
Così non rimaneva che l’allucinazione. Ecco quello che doveva essere stato: un’allucinazione. Dopo tutto la gente ne ha, di allucinazioni. E, a meno che non succeda spesso, ciò non significa necessariamente che tu sia candidato al manicomio. Benissimo, allora: ammesso che sia stato un’allucinazione, e con ciò? E con ciò, dimenticatene.
Giunto a questa decisione, Charlie se ne andò a letto e — col pensiero rivolto di nuovo a Jane — dormì beatamente.
La mattina dopo era lunedì e tornò a lavorare.
L’altra mattina ancora era martedì.
E martedì.
III
Non si trattava di un lombrico in ascensione, questa volta. Non era cosa che si potesse toccare con mano, a meno che non si voglia toccare una scottatura di sole; il che è doloroso, a volte.
Ma una scottatura di sole — durante un temporale…
Pioveva, quella mattina, quando Charlie Wills uscì di casa; non forte a quell’ora — erano le otto e qualche minuto — una semplice pioggerella. Charlie abbassò la tesa del cappello, abbottonò l’impermeabile e decise di andarsene comunque in ufficio a piedi. Gli piaceva molto camminare sotto la pioggia. E ne aveva tutto il tempo: non doveva essere al lavoro che alle otto e mezza.
Tre isolati prima dell’ufficio, incontrò la “Peste”, che aveva la sua stessa destinazione. La “Peste” era la sorella minore di Jane Pemberton; il suo vero nome era Paula, ma la maggior parte della gente se ne era dimenticata. Lavorava, proprio come Charlie, alla Società Tipografica Hapworth; soltanto che lei era l’aiuto di uno dei correttori di bozze, mentre lui era vicedirettore di produzione.
Era stato per suo tramite che Charlie aveva conosciuto Jane a un ricevimento dato per i dipendenti.
— Ehi, tu, Peste. Non hai paura di scioglierti? — Adesso, infatti, stava piovendo più forte, decisamente più forte.
— Ciao, Charlie-warlie{Pasticcione, casinista. (
— Senti, — protestò, — non potresti dimenticarti quel maledetto stupido soprannome? Smetterò di chiamarti “Peste” se tu la smetti di chiamarmi — uhm — in quel modo.