— Bene — dice Warhaftig. Fa un gesto brusco all’indirizzo di qualcuno fuori campo. Le mani del chirurgo sono formidabili, lunghe e forti; le dita simili ad affusolate bacchette pieghevoli, incredibili dita divoratrici di ottave, di straordinario vigore e delicatezza. Anche Shadrach Mordecai, pur non essendo un chirurgo, ha delle mani forti e aggraziate, ma la vista di quelle di Warhaftig gli fa sempre vedere le proprie come rozze e impacciate, mani con dita da macellaio. — Qui andiamo bene. Vi aspetto per le zeronove zerozero. C’è altro?
— Volevo solo che sapesse che il Khan si era svegliato — risponde Mordecai, con una punta di rigidità nella voce, e toglie il contatto.
Subito dopo, chiama la camera da letto del Presidente e parla brevemente con uno dei valletti del Khan. Sì, Gengis Khan è sveglio, ha fatto il bagno, si sta preparando all’operazione. Tra un momento inizierà la sua meditazione di ogni mattina. Il dottore desidera parlare con il Khan, prima? Il dottore lo desidera. Lo schermo si svuota, e c’è una pausa piuttosto prolungata durante la quale Mordecai sente che il proprio livello di adrenalina sta cominciando a salire: dopo tutto questo tempo, la paura e la soggezione che Gengis Mao gli ispira non accennano ancora a scemare. Si costringe a riacquistare la calma con un rapido esercizio di riequilibrio; mai troppo rapido, perché improvvisamente sullo schermo del telefono appaiono il volto e le spalle di Gengis II Mao IV Khan.
Il Presidente è un uomo magro, dalla pelle rugosa, un cranio sottile di forma triangolare, zigomi evidenti, sopracciglia marcate, occhi accesi, sottili labbra severe. La tonalità della pelle è più vicina al bruno che al giallo; i capelli di un nero denso, pettinati lisci, vanno all’indietro dalla fronte giù fino quasi alle spalle. Il suo è un volto che in modo immediato ed evidente suscita terrore ma anche, stranamente, fiducia; appare come onnipercipiente e onnicompetente, un uomo a cui si possono imporre tutti i fardelli del mondo sapendo che li saprà portare senza lamentarsi e senza venir meno ai suoi compiti. Il deterioramento recente del suo fegato attuale ha avuto su di lui un effetto visibile: la pelle è bronzea oltre la normale profondità della sfumatura, sulle guance gli sono comparse alcune macchie di pigmento, gli occhi hanno una lucidità inconsueta, febbrile; ma tuttora appare come un uomo di portamento regale e forza inesauribile, un uomo disegnato dalla natura per durare e per regnare.
— Shadrach — dice. La sua voce è profonda, dura, con una gamma dinamica ristretta, non proprio una voce da buon demagogo. — Come sto stamattina?
È un loro vecchio scherzo. Il Khan ride; Mordecai si sforza di sorridere.
Il dottore risponde: — Forte, riposato, gli zuccheri nel sangue un po’ bassi, ma in generale tutto secondo le previsioni. Warhaftig l’aspetta. Vorrebbe vederla arrivare in Sala di Chirurgia per le nove precise. Mangu è al banco di comando del Vettore di Comitato Uno. Giornata tranquilla, fino a ora.
— Questo sarà il mio quarto fegato.
— Il terzo, signore — dice Mordecai con dolcezza. — Ho controllato i registri. Il primo trapianto nel 2005, il secondo nel 2010, e ora…