Читаем Le sabbie di Marte полностью

A Gibson non occorse molto per orientarsi. L’accelerazione della nave era talmente lenta (calcolò che a lui ne venisse un peso effettivo inferiore ai quattro chilogrammi), che i suoi movimenti erano tuttora praticamente illimitati. La stazione spaziale numero uno non si era mossa dalla sua posizione apparente, e lui dovette aspettare quasi un minuto prima di accorgersi che l’Ares stava veramente allontanandosi anche se con estrema lentezza. A un tratto si ricordò della sua macchina fotografica e si diede da fare per riprendere la partenza. Quando ebbe finalmente sistemato (così almeno sperava) il complesso problema della giusta esposizione per fotografare un oggetto piccolo e vividamente illuminato contro uno sfondo nero come inchiostro, la stazione era già a distanza notevole. In meno di dieci minuti diventò un lontano punto luminoso, appena discernibile dalle stelle.

Quando la stazione spaziale numero uno fu totalmente scomparsa Gibson girò sul lato diurno della nave per scattare qualche fotografia della Terra in fase di allontanamento. La prima volta che l’aveva vista gli era apparsa come una mezzaluna sottile e immensa, troppo grande perché l’occhio potesse abbracciarla tutta con un solo sguardo. Adesso, mentre l’osservava, vide che stava lentamente aumentando ancora di dimensioni. L’Ares infatti doveva compiere ancora un giro almeno, prima di staccarsene e partire a spirale verso Marte. Ci sarebbe voluta un’altra ora, prima che la Terra cominciasse sensibilmente a rimpicciolire.

Gibson era ancora al suo posto di osservazione quando, più di un’ora dopo, l’Ares raggiunse finalmente la velocità di fuga che le era necessaria per liberarsi della forza gravitazionale terrestre. Non era possibile dire quando quel momento fosse venuto, perché la Terra continuava a dominare tutto il cielo e dai motori giungeva sempre lo stesso suono rombante lontano e soffocato. Ci sarebbero volute ancora dieci ore di funzionamento continuo prima che il compito dei motori fosse finito e si potesse spegnerli per tutto il resto del viaggio.

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Il medesimo spettacolo di stelle empiva tuttora il finestrino quando una serie di note squillanti che uscivano da un telefono interno risvegliò Gibson da un sonno senza sogni. Si vestì in fretta e corse sul ponte di osservazione, chiedendosi con curiosità che cosa fosse successo della Terra durante la notte.

Per un abitante del globo terrestre era davvero uno spettacolo sconcertante vedere nel cielo due lune contemporaneamente. Eppure erano là, l’una accanto all’altra, entrambe al loro primo quarto, e la prima grossa quasi il doppio della seconda. Trascorsero parecchi secondi prima che Gibson si rendesse conto di avere di fronte Luna e Terra insieme, e parecchi altri secondi ancora prima di comprendere finalmente che la falce più piccola e più lontana era il suo mondo.

Purtroppo l’Ares non passava molto vicino alla Luna, ma questa appariva ugualmente almeno dieci volte più grande di quanto Gibson l’avesse mai vista stando sulla Terra. Le catene intersecantisi di crateri erano chiaramente visibili lungo la linea dentellata che separava il giorno dalla notte, e il disco ancora opaco era visibile grazie alla luce terrestre che vi si rifletteva sopra.

Ma come mai…

Gibson si chinò bruscamente in avanti chiedendosi se i suoi occhi non stessero giocandogli un brutto scherzo. Eppure, nessun dubbio: laggiù, su quella superficie fredda e appena visibile, in attesa dell’alba che sarebbe giunta solo tra molti giorni, tenuissime faville di luce bruciavano come lucciole nelle tenebre. Cinquant’anni prima quelle luci non esistevano: erano le luci delle prime città lunari, e dicevano alle stelle che dopo un miliardo di anni la vita era giunta finalmente alla Luna.

Da un punto imprecisato venne un tossicchiare discreto che interruppe le fantasticherie di Gibson. Quindi una voce amplificata dal megafono disse in tono pacato:

«Se il signor Gibson vuole avere la bontà di scendere nel quadrato ufficiali troverà sulla tavola una tazza di caffè ancora tiepido e una fetta di porridge.»

Diede una rapida occhiata all’orologio. Aveva completamente dimenticato la colazione… fenomeno senza precedenti. Certo qualcuno doveva essere andato a cercarlo in cabina e non avendovelo trovato stava tentando di rintracciarlo attraverso il sistema di altoparlanti.

Quando riuscì infine a infilarsi come Dio volle nel quadrato ufficiali, trovò l’equipaggio impegnato in una discussione tecnica sui meriti dei vari tipi di navi interplanetarie. Ascoltò con attenzione mentre mangiava svogliatamente.

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