Classico romanzo di «fantascienza», per usare un neologismo abbastanza efficace, «Le sabbie di Marte» descrive il viaggio inaugurale dell'astronave «Ares» — prima nave di linea regolare fra i pianeti — e le lotte di un gruppo di pionieri del XXI secolo per colonizzare le rosse distese desertiche del pianeta Marte. È una lotta affascinante e paurosa su un mondo in agonia dove non esiste quasi più traccia di vegetazione e l'aria è così povera di ossigeno da essere praticamente irrespirabile. Ma la fine del romanzo darà al lettore la più straordinaria — e la meno impossibile — delle sorprese… "Le sabbie di Marte" è un autentico capolavoro della narrativa a sfondo scientifico e fantastico. Non per nulla il suo autore, Arthur C. Clarke, è un noto scienziato, membro della British Astronomical Association e Presidente della Società interplanetare britannica.
Космическая фантастика18+Arthur C. Clarke
Le sabbie di Marte
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«Dunque è la prima volta che andate lassù!» disse il pilota appoggiandosi pigramente allo schienale del sedile che la sospensione cardanica manteneva in posizione orizzontale.
«Sì» rispose Martin Gibson, senza staccare gli occhi dal cronometro.
«Me l’ero immaginato. Nei vostri libri, infatti, non avete mai raccontato le cose come sono. Il fatto di svenire durante l’accelerazione è tutta una fesseria. Perché mai scrivere certe assurdità? Pregiudicano gli interessi finanziari, non trovate?»
«Scusatemi, ma credo che stiate parlando dei miei primi racconti» disse Gibson. «Allora il volo interplanetario non era ancora cominciato e io ero costretto a servirmi unicamente dell’immaginazione.»
«Uhm» fece il pilota, degnandosi di dare un’occhiata all’orologio. La lancetta dei secondi aveva ancora un giro da compiere. «Se fossi in voi, non mi aggrapperei a quel modo al sedile: è soltanto un impasto di berillio e manganese, e potrebbe piegarsi.»
Gibson lasciò subito la presa e si rilassò. Si rendeva conto di affrontare la situazione in uno stato d’animo per così dire
«Certo non sarebbe molto divertente se dovesse durare più di qualche minuto…» riprese il pilota. «Ah, ecco che si mettono in moto le pompe del carburante. Non preoccupatevi quando il timone direzionale comincerà a fare scherzi strani e lasciate che il seggiolino giri come gli pare. Chiudete gli occhi, se questo può aiutarvi. Sentite? I razzi dell’accensione cominciano a miagolare. Ci vogliono circa dieci minuti per acquistare la velocità di fuga, ma a parte un po’ di baccano, non succede mai niente. Basta abituarcisi.»
Ma Martin Gibson non sentiva più niente. Era già scivolato nell’incoscienza sotto l’effetto di un’accelerazione che pure non aveva ancora superato quella normale di un ascensore ultrarapido.
Rinvenne dopo pochi minuti, e a mille chilometri di distanza, vergognandosi terribilmente della brutta figura fatta.
Osservò il pilota, chino sul cruscotto e tutto intento a scrivere sul giornale di bordo. Il silenzio era totale, di tanto in tanto, però, si udivano come detonazioni stranamente soffocate, quasi scoppi in miniatura, che lasciavano Gibson alquanto disorientato. Tossicchiò, con discrezione, per annunciare il proprio ritorno alla coscienza e chiese al pilota che cosa fossero.
«Contrazioni termiche dei motori» fu la secca risposta. «Si sono riscaldati fino cinquemila gradi e adesso si stanno raffreddando a tutta velocità. Come vi sentite? Meglio?»
«Benissimo» rispose Gibson, ed era sincero. «Posso alzarmi?»
Psicologicamente, aveva toccato il fondo ed era rimbalzato alla superficie, ma si trovava in una posizione molto instabile, per quanto non se ne rendesse conto.
Provò una meravigliosa sensazione di euforia. Il momento che aveva tanto atteso era finalmente giunto. Si trovava nello spazio! Era una vera disdetta aver perduto il decollo, ma quando si sarebbe messo a scrivere avrebbe ritoccato abilmente quel punto con chiose e commenti opportuni.
Lontana mille chilometri, la Terra era ancora molto grossa… e offriva uno spettacolo alquanto deludente. Spiegabile, del resto: aveva già visto centinaia e centinaia di fotografie e di film presi da razzi in volo, e così gli era mancata la sorpresa. Notò le inevitabili fasce mobili di nubi nella loro lenta marcia intorno al mondo. Al centro del disco le separazioni tra terra e mare erano nettamente delimitate, e si potevano scorgere anche mille dettagli minuti, ma verso l’orizzonte ogni cosa si perdeva in una fitta foschia. Persino entro il cono di visuale chiarissima che si apriva, luminoso, verticalmente sotto di lui, quasi tutto era sfuocato e perciò privo di senso. Certo un meteorologo si sarebbe abbandonato a trasporti di gioia nel contemplare l’animata massa di vapori che si snodava là in basso, ma la maggior parte dei meteorologi abitava nelle stazioni spaziali, ormai, dalle quali si godeva una vista anche migliore. Gibson si stancò presto di frugare con gli occhi in cerca di città e altre opere dell’uomo. Era umiliante constatare come tanti millenni di civiltà non avessero prodotto alcun mutamento degno di rilievo nel panorama sottostante.
Di lì a poco si mise a cercare le stelle, ma provò una seconda delusione. Certo ce n’erano a centinaia, ma pallide e come spente, smorti fantasmi delle accecanti miriadi che lui si era aspettato di vedere. La colpa era da imputare al vetro scuro del finestrino: volendo attenuare la luce del sole avevano derubato le stelle de! loro fulgore.